Opera 1^ classificata
Maria Gisella Catuogno
Stillano i giorni
Stillano i giorni il loro avaro miele
e lo mescolano all’amaro quotidiano
per tentarmi alla vita, nonostante.
E i nodi dell’ansia che arrochiscono
la voce e la baldanza
profumano di nardo tuttavia.
Arpeggia lieve la mia malinconia
e le sue note si perdono nel vento
non fa più male, ormai, è solo compagnia.
Avvolgo alla mia rocca il filo del passato
(sguardi, sussurri e lame di parole
sorrisi, pianti e grumi di dolore
perle di gioia e grandine di rabbia)
e ne alimento il fuso del presente
pungendomi le dita, non di rado.
Non ho un principe azzurro al mio risveglio
né fatine gentili a trepidare
ma guardo incantata i petali dell’alba
riempio d’acqua sorgiva le mie brocche
aspetto il sole, che sciolga questa brina.
Opera 1^ classificata Trofeo Donna
Angioletta Masiero
E rimangono sul muro sbrecciato
E rimangono sul muro sbrecciato
di un altro giorno che cade
con petali di attese scolorite
e folate di perché
nella ruota veloce delle lune.
Oltre i rami del calicanthus
vegliano adagi d’ombre
e la solitudine
si fa di nebbia colma.
Timide le mani
dipanano inquietudini
fra ventagli di stagioni,
uguali e sempre nuove
nell’arco teso delle lusinghe e delle sfide.
Poi
tutto svapora nelle mani.
E noi vaghiamo
al centro del silenzio.
Opera 2^ classificata
Chiara Celi
Distacco
Dunque è questo,
quel che abbiamo ottenuto, dopo tanto acceso
cercare: prigionieri di un cerchio spezzato,
prosciugati da un’attesa incompiuta,
alziamo torri di amari silenzi
contro un cielo morto da tempo. Così rapide
le nubi s’addensano, sull’incerto
folle cammino; da tasche logore e fredde
perdiamo fragili stelle, che un vento
di cose trascorse solleva lontano.
Qui, non rimane che polvere,
in queste mani che ieri soltanto
ci furono dono, intreccio mai sazio,
torrente di luce nel buio più fitto. E non s’ode
che il passo d’attonite ore, qui,
fra muri di antichi sussurri, dove si resta
senza essere più.
Opera 3^ classificata
Pietro Catalano
Il sole ha bruciato il cielo
(Hiroshima, 6 agosto 2005)
Dicono che il sole ha bruciato
il cielo ed un grande fungo grigio
ha inghiottito la natura attorno,
anche le pietre ha disintegrato
sotto la luna fatta bianca di paura.
Il rintocco d’una campana
penetra nelle vene,
non più melodia respira la mente:
sopra il cuore giace
la pietra nera di speranza.
Dicono che in un solo istante
migliaia di donne e bambini
sono spariti negli spazi
del cielo infinito e l’acqua
ha cessato d’esistere
e campi dorati hanno dormito per sempre,
non più erba verde nei giardini
né segnalibro di foglie secche
dentro diari di alunni innocenti.
Dicono, ma non è stato un sogno:
quel giorno la natura
pianse una seconda volta;
una sua creatura
aveva distrutto la madre,
l’anima s’era inorridita
e non aveva più luogo dove nascondersi.
Oggi il rintocco freddo
di quella campana
trafigge i cuori come allora,
e la notte dorme ancora
nelle menti degli uomini,
pronta a ritornare ogni volta
che credono d’essere onnipotenti.
Opera 4^ classificata
Anna Cacciola
Profezia
Donna, morirai
prima che la neve ricopra
l’abete del giardino.
Di te non resterà che un canto
e il freddo diafano delle dita consunte.
Donna, morirai
in un silenzio contratto, tra lacrime
espanse di occhi vacanti.
Non ci sarà vento sulle tue carni già rarefatte
ma solo un flebile fremito d’esistenza.
Ultimo.
Donna, intonerai
il tuo addio nella discrezione di
un talamo antico e usuale.
Non si alzerà, nudo, il clamore.
Solo l’attesa spasmodica cadrà nel tumulo.
Il mio addio oltraggi la verginità di questa carta
e incide la tua pelle che è ormai profezia di morte.
E voi, che udite lo strazio di questo epicedio,
non toccate il sonno degli infermi,
non violate la bocca degli infanti:
il loro tacere ha un senso che
a noi non è concesso intendere.
Preludio della fine o principio della rinascenza.
Opera 5^ classificata
Patrizia Gori
Eterna primavera
Non sono i tuoi novant’anni
né il tuo piede emaciato
o i capelli radi.
A colpirmi
è il tuo sonno profondo
Un respiro ormai rantolo
canta la pace
che tutti cercano.
Così mi saluti:
in punta di piedi
come hai camminato dentro la vita.
Raccolgo brandelli di anima
e ne faccio una collana.
Vorrei donarla
al tuo petto avvizzito.
Un grazie tardivo
per ciò che hai lasciato.
Muoio con te
eppure resto
a guardare un cielo sereno
e margherite in fiore
come ogni primavera.
Opera 6^ classificata
Maurizio Gramegna
Non ho percorso le vie dell’innocenza
raggrumando di rosso le ginocchia
colando il sangue caldo sull’asfalto
per rifiutare lo sguardo a nuove mani
A volte uccelli neri mi sorvolano
creando cerchi sopra la testa stanca
altri in attesa sugli spinosi rami
In quei frammenti d’ombra
occorre la pietà del pellegrino
che cade, e straccia la sua veste
per dare ancora forza alle tue braccia
Ma se chi vince il vento con la faccia
sopporta le lame che gli getti
allora non c‘è assedio alla tua torre
ed apri le finestre al biancospino
Opera 7^ classificata
Aura Piccioni
Naufrago Odissea
Mi persi.
Il mare mi condusse ovunque volle.
Mi abbandonai alla sua furia, mi abbandonai alla sua tenerezza.
Il mio cuore era lontano. Penelope! Urlava.
Finché un giorno tornai.
Ma il vuoto era immenso,
il vuoto è immenso… continua ad ardere…
ci sarà ancora un’altra riva, per me.
Si disvelerà un’altra Ogigia.
Non posso fermarmi! Inciderò il mio destino.
Nulla è ancora scritto. Il mio pòthos…
O Tyche ingannatrice, perché mi perseguiti?
Vent’anni lontano da casa! Vent’anni…
Eppure… è sublime il fremito delle onde.
Straordinaria questa nostalgia. Dolorosa questa estasi.
Brucia la brama di sapere, come fuoco arde.
Non ho più anima,
essa vaga tra le nebbie dei tempi
condotta da Eolo dalle rapide ali.
E ancora, naufrago, scomparirò tra le pieghe del mondo.
E ancora, naufrago, le mie mani
aneleranno la loro immensità.
Fino a che sarà la luce. Finché sarò luce.
Non più uomo, ma sovrumano pensiero.
Non più mortale, immortale brotòs.
Cosa mi domandi, o vita? Perché mi rapisci, mare?
Guidami, o vento, sulle rotte
dei silenzi. L’immortalità mi attende.
Opera 8^ classificata
Laura Barbiero
In fondo all’amore
Nasce la vita dai tuoi occhi,
nei miei respira e si fa forte,
come ti avesse già incontrato
e già perso più volte,
distanze appena,
sfiorati da un’infanzia
che ci ha cresciuti estranei,
ora che sento la mano ruvida
di un destino che rifiuto
toccarmi violenta.
La mia pietà sorride
ad un amore svenduto
che in futuro non ci consumerà
per aver chiesto troppo,
nei giorni vissuti mai abbastanza,
nei comodi silenzi in cui stare,
ritrovarti in me senza saperlo,
una guerra tra i miei bisogni
che chiedono libertà
e imprevedibili mi tradiscono.
Troppi cuori dentro ai quali
non vi è rimasta memoria di me
oltre le imprese del mio piacere,
perché ignoravo
quanto disordine crei la memoria
e quanto tutto muoia solo e sempre
attorno alla bellezza.
Farò roccia dell’imperdonabile istinto
con cui da sempre sbagliai a parlare,
al tuo animo ora m’abbandono.
Opera 9^ classificata
Laura Puglia
Ungheria ’56
La tortora ha gridato
ha fatto il tuo nome
l’inverno ha coperto il grido.
Resta ad aspettarmi ti dico. Copri
le mani e le spalle
la cosa si muove
una cosa che non ha fine
e quasi si spegne.
Ti posso solo amare
col corpo senza contorno
che traspare sul fondo
il suono tra le fessure
lo sguardo fra le ciglia chiuse.
Scorre come delfino nella corrente
sibila nell’ansia
cerca la parola senza ritorno.
Ma io avvolgo i capelli
e il mantello mi porta.
Un mantello scuro
che di notte copre la fuga.
Abbiamo la stessa lingua
la stessa pausa tra le parole.
Io sarò la dove sei
dove si spegne la voce.
Opera 10^ classificata
Rosa Maria Corti
Nella baia di Cassis
(o dell’amore vittorioso)
Riverberavano ancora gli alti bastioni
in quel vitreo iemale crepuscolo
che cadeva, breve, nei nostri occhi.
Passanti scivolavano via senza rumore
e gabbiani dormivano già nei loro oscuri rifugi,
ma il vento ci recò improvviso un lamento
nella notte stellata che rapida incalzava.
Ricordi?
Quando alfine spuntò la luna
a sbiancare come un sudario la terra,
a far brillare come uno specchio il mare,
si fece il lamento ancora più cupo.
Non erano sartie che stridevano in porto,
non richiami di gatti senza padrone.
Era il mare che reclamava la terra,
era Calendal che invocava Esterella,
era dell’amore vittorioso la favola bella.
E furono tonfi, brontolii, gemiti selvaggi,
d’acque scure appassionato concerto,
fin che la luna spense l’ardore dei suoi raggi.